Summoning – “Dol Guldur” (1997)

Artist: Summoning
Title: Dol Guldur
Label: Napalm Records
Year: 1997
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Austria

Tracklist:
1. “Angbands Schmieden (Intro)”
2. “Nightshade Forests”
3. “Elfstone”
4. “Khazad-Dûm”
5. “Kôr”
6. “Wyrmvater Glaurung (Interlude)”
7. “Unto A Long Glory…”
8. “Over Old Hills”

Non tutto ciò che è oro luccica, nell’oscurità che lo avvolge. Non tutto ciò che è lungo dura in eterno. Ma tutto ciò che è vero benché antico non sbiadisce mai completamente, e non ogni cosa che sembra essere passata è realmente finita. Proprio in quell’oscurità avvolgente una stella è caduta, laggiù, a Mordor, dove tutte le ombre risiedono ma non riescono a celarne lo splendore; laggiù un pericolo immane si fa imminente e due cantori da Mar Vanwa Tyaliéva, fermatisi ora nella locanda del Drago Verde lungo la strada di Lungacque nella remota ed isolata Contea, ammoniscono gli avventori con le loro storie fatte di un passato futuro. Una suggestione in musica che nel 1997 è ancora totalmente inedita canta in lingue da tempo sconosciute all’umanità schiava delle sue passioni di un grande potere che si sta sollevando dalle tenebre, da Dol Guldur, il colle della magia nera, la fortezza del negromante Sauron servo di Morgoth; di una pietra che generò contesa asprissima tra i popoli degli elfi silvani e quelli dei nani nelle sale di Khazad-Dûm, la stirpe di Durin e dei Lungibarbi di Moria nelle profondità delle Montagne Nebbiose; e di una riconquista impossibile verso la Montagna Solitaria ad Est, la Erebor assediata, la sua storia minacciata da un drago avido e vendicativo, color dorato e cremisi come sangue e rubini.

Il logo della band

È un canto in alcune sue selezionate parti oramai udito da qualche tempo, che risuona forte come lo scrosciare di una cascata per le vallate. Perché i Summoning nel 1997 hanno in fondo già iniziato a fare scuola, non soltanto intrecciando le proprie vicende coi parenti Pazuzu e Abigor nel ristretto circolo austriaco (di cui è possibile sentire tutta la vicinanza fin dal 1995 di “Orkblut” e nell’“And All Was Silent…” del 1994, addirittura completamente scritto dal duo) – ma anche all’estero. Si voglia solamente pensare ai (comunque non soli) Borknagar del debutto omonimo targato 1996, nei loro eloquenti intermezzi strumentali, i quali sono forse l’esempio più famoso di questo curioso scambio di favori ricambiato: prese in ostaggio dagli austriaci le tastiere sinfoniche implementate nei reami del nero dai norvegesi, persino l’avanguardia innegabile di questi ultimi si piega, durante la seconda metà della decade, sul finire del millennio, alle nuove possibilità che i due bardi del verbo tolkieniano aprono concretamete a partire dal 1995. Molto più tardi, di due lustri interi almeno e presumibilmente più galvanizzati dalle possibilità creative a questo punto consolidatesi nell’immaginario collettivo tramite la trilogia cinematografica di Peter Jackson che non direttamente dalla musica dei Summoning (riscoperta, v’è da giurarci, più plausibilmente a ritroso), arriveranno i veri e propri epigoni dello stile del Black Metal tanto atmosferico, atipico ed epico forgiato dagli austriaci; eppure, i germi di una prima ricezione anche tra gli artisti meno sospetti del panorama estremo tra il 1996 ed il 1999 sono già lì, in quelle tastiere dal suono inspiegabilmente medievale ed arcaico, al limite del folkloristico, il cui segreto viene rubato dal padre dei draghi di Angbad, nella prigione da cui nessuno fugge (e le cui fucine sono la metafora brillante con cui introdurre l’album dello snodo effettivo), fatto trapelare per la prima volta da Silenius e Protector. Il primo, autentico motore pulsante della rivoluzione insita nella programmazione della drum-machine con i ritmi e i tamburi da guerra delle sue inclinazioni più marziali e belliche (come dimostreranno esplicitamente i Kreuzweg Ost nel giro di tre anni), mentre il secondo con la sintetica polifonia orchestrale già in ampia esplorazione nei suoi altri due progetti, specialmente nella penombra dei neoclassici Die Verbannten Kinder Evas dell’omonimo debutto (per tacere della sua formativa partecipazione di un anno nei Grabesmond con P.K. per il nastro “In Schwindendem Licht…”) e dello shelleiano “Come Heavy Sleep”; nel febbraio del 1997 ormai prossimo alla distribuzione sebbene già registrato da qualche tempo.

La band

Giusto appunto le tastiere che aprono l’intramontabile classico misconosciuto “Unto A Long Glory…”, solo un più lampante esempio in tandem con il prosieguo dei nove minuti di magistrale chiusura dell’album, mostrano i due alle prese con la scrittura del proprio materiale più oscuro benché forse, emotivamente, non il più cupo di sempre (con tanto di programmazione del batterismo elettronico a tradire una propensione non ancora afferrata per il lato World della musica ed esplorato molto più tardi, tra il 2013 ed il 2018); ma non solo gli ottantotto tasti bianchi e neri da cui per la prima volta parte l’intera composizione di “Dol Guldur” lo dicono, basti pensare a quelli della parallela “Mirkwood” nell’adiacente EP gemello dell’estate 1997: tutti piccoli ma decisivi indizi a mostrare artisti che credono tanto nell’unione quanto nella frammentazione e nella divisione creativa di colori, sensazioni e immagini che genera andirivieni temporali finissimi. E se l’oscura “Nightshade Forests” ci fa infatti muovere timorosi tra le ombre pericolose di Bosco Atro con i suoi arti chitarristici aracnidei che hanno l’estremità ultima nei primi due capitoli discografici del gruppo, l’epicità traboccante e quasi-barocca di “Elfstone” scintilla e riluce come le stelle fredde e distanti adorate con malinconia eterna dalla stirpe silvana, ed è come nessun’altra la traccia che sigla la gemmea matrice futura per pressoché ogni composizione più apprezzata dei Summoning tra il particolarissimo “Stronghold” e soprattutto “Where Mortal Heroes Sing Your Fame”, segnando indelebilmente -per inciso- tutto un modus operandi di fondo che Silenius e Protector si sarebbero portati in realtà dietro anche oltre il magistrale tassello “Oath Bound”. La straziante lentezza polifonica dell’altro inno “Khazad-Dûm” è un’ulteriore, fortissima e vivida anticipazione di una maestosità a venire, di brani allungati e magniloquenti a non finire, senza più ritorno verso le coste macchiate dal sangue ritmico di “Lugburz” (o dell’omonimo brano, o di “Morthond”, per non parlare del finale di “Through The Forest Of Dol Guldur” – tutte contenute nel suo successore blu); in ciò “Dol Guldur”, con gli inafferrabili motivi sospesi delle sue “Kôr”, con l’elettronica inclusa in quella “Over Old Hills” rilavorata dalla materia di cui sono fatti gli Ice Ages (nella fattispecie di “Trapped And Scared” da “Strike The Ground” del medesimo anno) e trascinata in un mondo fantasy lontano dal mondo conosciuto, è davvero il disco della cesura da tutto il Black Metal in cui i due musicisti sono cresciuti dalla fine degli anni ’80. Molto più del celebratissimo “Minas Morgul”, evidenza d’un cambiamento che poteva essere esperimento o parentesi non prossima ad evolvere ulteriormente né a ripetersi, “Dol Guldur” è infatti il disco in cui i Summoning scelgono di allontanarsi senza mai più guardarsi indietro dallo stretto vincolo genetico con gli Abigor più sognanti (dei quali l’amico di una vita Peter Kubik scrive simbolicamente metà dei testi dell’intero disco verde, a braccetto con la penna di Tolkien divenuto ispirazione prima del progetto), e nondimeno da tutto il loro milieu novantiano ancor prima che gli anni ‘90 siano effettivamente conclusi.
Non solo, infatti, i Summoning di “Dol Guldur” mettono per la prima volta totalmente a fuoco ricettività e gusti che il mondo Black Metal avrebbe pienamente accolto e provato a replicare soltanto una decina di anni dopo con una vera cognizione di causa, rispondendo all’unisono e nel farlo, come nessuno prima in Europa, sia all’atmosferico di Burzum che al fenomeno sinfonico di Dimmu Borgir ed Emperor, ma giocano qui a carte totalmente scoperte con le tastiere dei loro eroi Synth-Pop degli anni ‘80 (dai Depeche Mode ai Leaether Strip, tramite i The Vyllies di “Lilith”, i cui toni di sintetizzatore sono facilmente ritrovabili nell’evidenza strumentale della muta “Angbands Schmied” e tra le spire del “Wyrmvater Glaurung”) rilette tuttavia tramite l’esperienza educativa dei Dead Can Dance di “Aion” e “Within The Realm Of A Dying Sun” accanto alla guida Mortiis; non paghi di questo plausibilmente inconscio ruolo di apripista, trovato lo specchio incantato per un’altra dimensione sconosciuta e governata da uno spirito che al momento opportuno si ribellò ai suoi simili, nonché più prosaicamente il modo altamente sperimentale -e si osi, per una volta, non sprecare a vanvera l’attributo innovativo per un mix d’intenti tanto improbabile quanto strabiliante-, in questa precisa occasione compositiva i due rilasciano quella che resta oggi la prima incarnazione effettiva di ciò che avrebbero significato in oltre due decadi a venire.

“Dol Guldur”, in perfetta linea con (nonché letteraria sintesi de) il suo altisonante titolo, è d’altra parte ad oggi anche il disco più oscuro mai rilasciato dal gruppo, e ciononostante il suo best-seller irreplicato sotto il mero e freddo piano delle vendite. Il fatto di essere l’album dell’affermazione stilistica, del proverbiale passo in là rispetto alla sorpresa del riregistrato “Minas Morgul” nel 1995 ha sicuramente giocato sotto questo ed altri punti di vista a suo favore; lo stop totale di quasi due anni del duo al picco della sua primissima scoperta e ascesa mediatica ed il conseguente rilascio, nel 1999, del diversissimo, più addolorato ed introspettivo “Stronghold” può aver fatto parte del resto. Ciò nondimeno, il solo ascolto di quello che qualora sommato al suo gemello siamese tagliatogli via per ragioni di lunghezza (il mini “Nightshade Forests” ufficialmente distribuito a partire dal giugno del medesimo anno quale appendice alle medesime registrazioni di “Dol Guldur”, quasi la seconda parte di un doppio album mancato) resta con ampio margine il lavoro più lungo e per certi versi impegnativo dei Summoning, può bastare se non avanzare al fine di carpirne ancora e a distanza di venticinque anni la stessa magia che, all’inizio del 1997, deve aver travolto schiere di ascoltatori trasformati come dalla maledizione di un drago che cova il suo oro in prossimi ed affezionati seguaci.
Da qui la strada sarà in salita, nonostante il paradosso per cui il disco più venduto di sempre marchiato dal blasone austriaco non sia nemmeno minimamente il più quotato, adombrato com’è dalla statura titanica del non solo “Oath Bound”, per volerne scomodare uno, ma del sempiterno fan-favourite “Minas Morgul” che, ad onta del tempo che passa, continua in qualche modo a godere della sua priorità cronologica. I problemi personali e più intimi di Richard Lederer e Michael Gregor -quelli brevemente trapelati come quelli fortunatamente taciuti nelle numerose interviste del periodo- li porteranno poi a trovare sempre più forza nelle possibilità di escapismo e catarsi concesse loro dal nome Summoning, finendo per realizzare lavori uno più riuscito e sentito dell’altro. E sebbene dunque “Dol Guldur” non sia, a conti fatti, fortunatamente considerabile il loro più bel disco in assoluto, resta forse l’episodio più importante e cruciale dell’intera, celebrata carriera: quello più immediatamente rappresentativo delle rovine ritrovate in musica da Silenius e Protector, forse il più imitato, e nondimeno dotato di un carattere tutto suo qualora paragonato agli altri capitoli dei suoi creatori. Insomma, quegli sfuggenti eppure qui chiarissimi tratti d’inventiva e visione che consegnano alla posterità un vero capolavoro.

Matteo “Theo” Damiani

Precedente Bak De Syv Fjell - "From Haavardstun" (1997) Successivo Immortal - "Blizzard Beasts" (1997)